Elia era lì davanti alla banca, portafogli in mano. In un bugiardo e nuvoloso giovedì di un certo mese e un certo anno, in una primavera che ha sputato troppo presto catarro d’inverno. Sembrava un incubo. Dagli incubi bisognerebbe sapersi svegliare, magari con le frecce sul percorso, la via d’uscita e quella d’emergenza, di buona creanza. Elia, occhiali grossi per occhi grossi da non far vedere. Nascondere.
Elia abbastanza alto, abbastanza bello, abbastanza questo e quello, due occhi verdi in cui nuotare, spalle larghe per sostenere tante cose per un bel po’. Capelli chiari un poco allungati, ciocche ribelli, labbra e mani molto, ma molto, belli. Nascosto. Tutto o quasi tutto, lo era stato. Pure lui.
Un segreto.
Doveva essere un segreto perché le gente sai, non si fa mai i fatti suoi. Nascosto fino allora. Ma era giunto il momento.
Esatto.
Il momento esatto in cui lo scambio avrebbe pareggiato conti: sottopassi erotici per il garage, scale prese la sera e lasciate al mattino contro corse a Palermo, ammutinamenti di qualche giorno, silenzi di paglia, amori riaccesi e progetti riscaldati al ritorno di lei. All’inizio di tutta questa storia tante cose in testa. Farfalle nello stomaco. Alla fine, presumibilmente, tante corna in testa.
Vomito.
Elia.
Assunto. Che nome diverso non avrebbe potuto portare per la sua, come la nostra, posizione sulla mappa di un mondo e, appena passato remoto, mestiere. Ma, per fortuna poi, gli amici lo chiamavano Nanni… Assunto, ormai rassegnato alla tintarella di luna, smilzo e poco felino, quindi che si muoveva a scatti ma non era scattante, si suppone non fosse nemmeno intelligente. Ebbene, Elia l’aveva assunto. Un giorno, così per caso, caso estremamente non fortuito e studiato. Assunto aveva bisogno di soldi, Assunto.
Scusate mi vengono i brividi quando sento certi nomi, come se registrandoli all’anagrafe possano mettere poi un timbro di ceralacca sul destino di chi li porterà per sempre alle presentazioni a scuola, questo qui, ciao, sono Assunto… che fa rima con munto, con unto, con disgiunto, smunto. Poveretto.
Poveretto lo dicevano chiaramente le sue scarpe da banchetto di legno, quello dove il mercante espone il sandalo misura unica a sette euro, signore lo prenda che non ne “arristanu” più. E Assunto lo prende. Timido, avvolto in una giacca nera due taglie più grande, imitazione del panno imitazione del panno imitazione del panno imitazione del panno che imita il panno e che imita la lana. Questa, se “se la prende”, gliela passo tre. La giacca. Iè. Siccu siccu, Assunto. Disturbato tutte le notti da quella del piano di sopra, che glielo diceva ogni tanto Assunto, con la sua vocina flebile, ma dai… e lei. E lei niente, aveva da fare tutte le notti. Tutte le notti Elia? Ma se tu non c’eri quella sera? Tu non ci sei stato mai “ogni sera”.
Elia…
Prima o poi. Elia ché fingi che non ti importi, dai.
Elia che dopo pochi mesi trovava spazzole che avevan spazzolato capelli scuri e lui li aveva chiari. Prendeva il pelo, un po’ schifato, con due dita. E se fosse mio? Di dietro della testa che non si vede? Non lo vedo mai. Ma sì dai. Che due scuri, se cerchi, sicuro ce li hai.
Elia faceva il sugo. Lo faceva bene. Portava sacche di amore le disseminava in cure per la casa e per il cuore, masticando un indefinito dolore. In cima allo stomaco. Come un presagio. Ma poi rideva, sì, lei lo faceva ridere, volare, venire, tornare, venire, tornare, venire, amore. A saltare, una volta al mese le scappava “amore”. Ci sapeva fare, di sicuro, con il cuore. Si amavano costruendo i ricordi di domani di un’estate in cui nessuno avrebbe mai scommesso loro finalmente vicini. Questo amore era così bello, era così grande, era un “finalmente”, era così intenso e lei, spesso, senza mutande. In effetti non ne aveva molte, il più delle volte erano a lavare. Da mesi.
Lui diceva che questo amore era così grande. Era così bello, così bello signori, un abbraccio extraterrestre, gli occhi di fuori. Una nuova gamma infinita di piccoli, alacri, nervosi, capillari, cardiovascolari dolori. Dio delle città, hai poi scoperto… lei perché lo fa?
Elia…
Così grande che certe volte lei gli faceva levare, per giorni, le tende. Vai via. Vai via di qua. Servivano quei giorni a pensare, non lo diceva, si asteneva. Punto.
Ma fiorivano poi, al suo rientro, che rientrava punto nei suoi doveri, oggetti per casa che non aveva seminato lui, e capelli più scuri, che Elia si mise pensieri. Sarà mai che il capello morto, una volta caduto dal corpo, da biondo si ricolori? Per una forma di ribellione, va, un finalmente, eh sì, avrà pensato, caro capello sconsiderato, divento scuro e mi arriccio, muoio come dico io, colorato. Anch’io per adesso, ti penso come dico io, gli diceva Elia, buttandolo nel cesso.
Lei e lui. Ogni tanto scappava un “noi”, muoveva certi primi passi. Ogni tanto indagava lui.
Solo noi?
Può essere mai?
Lei non voleva essere una bugiarda e rimaneva in silenzio e quel silenzio era petardo. Queste domande inutili Elia, perché le fai? A quest’ora, cos’altro vuoi? Non ti basta “noi”?
Loro due. Sebbene complici, felici, nelle manie, negli spasmi, nelle contraddizioni si erano riconosciuti. A sparare a topi dal balcone ben presto sarebbero arrivati. La sublimazione del non senso, il codice esatto di una libertà di vivere e morire e poi sparare che solo insieme avrebbero potuto conquistare. Lo sapevano, lo avevano sempre saputo. Da chissà quale mondo a questo si era arrivato.
Ce l’ho. Sei sicuro? Sì l’ho visto. Ce l’ho sotto mira. Fallo, spara! Presto! Spunpf! Topo morto.
Mi ricordo di averlo letto, un episodio così, quello era libro e lui, il protagonista, aveva un tumore. Qui, questa “lei”, convinta di essere l’amante di Tomas, Sabina, (bella Sabina con la sua bombetta), l’Insostenibile leggerezza dell’essere e pure l’autore, Milan Kundera, tutti insieme, ha invece solo disamore. Elia, chi te lo fa fare?
Prima o poi di foto “del risveglio” fatte il mattino prima, per celare la notte dopo, (vedi che lì sul mobile manca una busta, che l’ho tolta via ieri, bestia), dovrai dire basta. Bestia. Che bestia sei, voleva dirlo ma stava a guardare, in effetti, anche una magnificente evoluzione d’amore. Immenso amore. Immenso colore. Immenso motivo per cambiare. Bah. Per quello non era ancora, mai, ora di andare. Ma quella cosa di Assunto, quella cosa di tutte le notti. Quella cosa, smascherata, sarebbe stata la sua vera via, cagione, soluzione di fuga.
Due dita in gola autorizzate. Due belle liste sottolineate, nomi e cognomi e la frequenza, data di arrivo e di partenza. Un telecomando e una bomba e un meraviglioso fungo dietro di lui.
Si vedeva già, bello nell’inquadratura, ed era anche pettinato e in tiro. Sì, tutte le volte, dopo la “notte”, usciva impeccabile Elia: vestito, stirato, splendido, occhiali da aviatore e “u mussu” a funghetto.
Una casa di cura. Era quella. Sembrava fosse amore e invece era un risciò.
Rabdomante aveva prosciugata tutta l’acqua… Avvizziva le motivazioni.
Le tue cure lo sai dove te le metto?
Una casa di cura era diventata, quella dove “nessuno ti giuro nessuno è mai entrato”.
Assunto, per ottocento euro ci stai?
La lista di chi sale e poi scende tutto il prossimo mese, me la dai? Assunto ce la fai?
Assunto due esitazioni.
Assunto dondolava ripensando alle notti insonni per i tumulti e le agitazioni. Elia incalzava agitato: quel letto che sbatte e sbatte e sbatte e poi sbatte sul muro che se scende è il tuo, benché ammutolito da cuscini e uno strato di plastica a bolle, il muro, noi, le mosse, le scosse, le mosse, le scosse… un po’, dimmi un po’, non ti hanno rotto le balle?
Adesso, dopo un mese e, fatto salvo su un’agenda i quattro giorni calendarizzati di Elia, da scartare ovviamente, il telecomando si sarebbe potuto azionare.
Elia. Davanti alla banca.
Assunto veniva da destra. Poco meno che fuggiasco. Più pieno il suo petto, più colorito, gli erano venute le carni rosa a lui. L’aveva notato già una decina di giorni fa Elia, che ad Assunto erano venute le maniglie, quelle belle, per le scale una mattina: buongiorno plastico di cortesia, di reverenza, le scarpe, stonf stonf, nello scendere al portone. Bellino che sei. Una maglia del supermercato che già era un successo e pure un soffio di dopobarba che aveva appena messo. Indifferenti. Si cedevano cancelli. Arrivederci. A lei.
Assunto. Elia.
Lo scambio. La verità.
Ecco i tuoi soldi. Sono in dollari per motivi miei. Entri in banca e li cambi. La lista me la dai?
Da lì è tutto un divenire di nulla. Scena di film, fungo e telecomando, annullata.
Solo quattro nomi e tutti Elia. Solo quattro giorni di tumulto e rumori in un mese per quella cura?
Poi tutte le righe di dinieghi.
Nessuno.
Nessuno.
Nessuno.
Nessuno.
Bah.
Elia, basito, e, in un certo qual modo, deluso, inforca occhiali e bicicletta, che mia nonna avrebbe chiamato allo stesso modo. Le lenti per lei erano la bicicletta, la portavano in giro per la realtà. Che se sbaglia l’oculista è realtà soggettiva, di oggettivo nulla, va bè. Assunto è dentro la banca.
Elia scappa in fretta. Una nuvola di gente si forma presto dietro di lui come fumo che vuol tornare dentro una marmitta.
I soldi falsi Elia…
E ora che fai? In quella casa come tornerai?
Elia corre, corre verso la scogliera. A un semaforo una vecchia che attraversa ma lui la ignora. Caccia un urlo di spavento: “cunnutu” chi fai?
Lui torna indietro. Vorrebbe picchiarla la vecchia, vorrebbe pestare lei adesso, lei che ha interrotto i ragionamenti di un corto circuito che è allucinante come mai. Le alza una mano che ombra sulla sua testa, una “scoppola” pronta ma poi, poi si accorge di quanta gente lo sta guardando. Non è inconfutabile per le intenzioni, a Catania, picchiare una vecchia se non è per rubarle a “pinsioni”.
Non è possibile che nessuno sia salito mai, il suo delirio non lo molla e gli mostra la strada come “La cometa”. La scogliera, quel suo margine, come ultima meta. Non è possibile. La vedeva ancora con il suo taccuino delle bugie. Rideva, aveva una “storia” con il telefonino, le chat e l’applicazione dell’agendina, rideva cretina. Come quando l’amante ti scrive è lì che ti darei un bacino e tu sei in fila alla posta e ti guardano tutti. Quel giorno lì.
Poi l’indomani una fuga, irrintracciabile per qualche ora e, al rientro, la solita bugia detta con la testa in un vaso di sabbia ed Elia, che non glielo diceva, ma avrebbe dovuto, vedi che ti si vede il culo, minorata. Struzzo non sei ma lo imiti perfettamente, il mio caro immenso “amore deficiente”. Il culo l’hai di fuori. Me ne vado e tu muori. Se me ne vado muori.
Noi.
Che importa “noi”?
La scogliera ha un bordo che confina con il definitivo. Elia ci dondola sopra.
La lista.
La lista sventola sulla sua faccia.
Non fosse mai che aveva visto falso tutto, lui? Capelli, portachiavi, accendini, sorrisi, magliette. Si volta verso la piattaforma di cemento che riporta sulla statale. Lì, due dita e il primo morso hanno segnato la deviazione per quella vita. E, come nei migliori film, una parte di roccia si sgretola, vola giù, il piede un po’ scivola, lui tentenna. Guarda sotto.
Guarda sotto.
Guarda con le braccia a uccello grosso come a volersi librare in volo. Il fatto è che aveva di fronte, proprio di fronte a sé, la scena di un amore visto mai. Prova ad acchiapparlo se puoi.
Tutte quelle diapositive di felicità.
Non t’avessi visto felice amore mio. Non t’avessi. Mai. Adesso se la prendeva con Dio.
Con chi ce l’ha signore?
Chi possiamo denunciare?
Non si butti, non inquiniamo oltremodo il mare. (Nel frattempo si era avvicinato un carabiniere).
Il Dio delle città che me l’ha fatta incontrare, ma non adesso, anni fa, quando mi ha fatto innamorare. Urla con il poco fiato che gli è rimasto, lui.
Bite, fa l’altro, che in francese vuol dire azz. Giusto per non essere volgare ma saper socializzare.
Me le vuole raccontare?
Sì ecco, stavo con lei, la amavo tanto, il sesso era così bello che non c’era ragione, l’amore così grande che non c’era ragione, ma immagino lei le avesse, le ragioni. Altrimenti non saremmo qui.
Aveva altri uomini ma non lo posso dimostrare. Mi chieda chi mi ha tradito, se non è nessuno? “Nuddu ammiscatu cu nenti”. Non è così?
Io che la portavo alle stelle, portavo amore, lisciavo le sue maglie carezzandone il collo, pensando al suo viso, al suo naso nei miei capelli la notte e, venivo sempre dopo tutto, dopo tutto il resto.
Sbrigato oggi per esser libera domani.
Tutti lì fremevano.
Il direttore di banca, trafelato e sudato, Assunto, i carabinieri.
Prendetelo signori!
Tutti erano corsi con le suole sul culo a cercare di acchiapparlo.
E pure lei.
La “presunta” traditrice offesa da questo inutile livore. Inaudito, inaudito.
Hai visto che figura mi hai fatto fare?
Ah, ma adesso i soldi glieli dai.
Lei feroce con chi non paga debiti e scommesse.
Elia… i soldi falsi…
Il carabiniere interviene e si mette tra loro. Zittisce tutti, pure il banchiere.
Elia non muove un passo. E chi sta sul bordo è sempre a rischio.
È reato, dovrà pagare!
Quello non smette di urlare perché ad Assunto è arrivato a scambiare.
Ottocento euro mi dovete tornare!
Assunto in effetti, quatto quatto, arretrando, ci ripensa e se ne va.
Un infermiere gli dà un calmante, a Elia.
“Lei” fa l’offesa ma anche la galante, lo abbraccia in pubblico per essere gigante.
Poi la bici nel cofano, saluti alla gente. Non vi preoccupate non era niente d’importante.
Elia muto come un pesce.
Torna a casa anche senza farsene una ragione e se questo non fosse, se fosse stato in altre vite, e non in questa, e ancora brucia, Elia portava comunque i segni di quelle botte sul cuore.
Eri così felice amore mio, eri così felice, non ho creduto a te ma alla tua felicità. Sono rimasto anche di fronte a pernottamenti da quell’amico che ti faceva dormire poi nella fossa dei leoni, all’altro che aveva sul letto una decina di pitoni, a quello che non è etero e nemmeno ci pensa a vedere che hai sotto i maglioni. Sono rimasto nientedimeno solo perché ti amo.
Silenzio.
Un amico e una birra una sera, non sopportando più l’atmosfera, Elia, volevi essere proprio tu il primo a mondo ad aver goduto di un individuo nato rotondo e morto quadrato?
Ha risposto che non c’è stato nessuno quando gliel’hai domandato?
Dici “noi”, che importa “noi” se nel suo progetto tu non ci sei? Non ci sei mai. Lei. È solo lei. Tutte le volte che scopa un altro, dice a lui che “nessuno” siete voi. Tu lo sai?
Sì che lo sai.
Ti sei sbagliato. Ci hai creduto. Eri abbagliato. Le verità che nascondi a te stesso s’infilano nella tua carne come il filo di seta che seguiva l’ago sfiammato che mia nonna usava per forare i lobi degli orecchi, sfiszszs, bucato, ferito. Elia. Usato.
Qualche tempo è passato.
Il silenzio si è fortificato.
“Noi” non riecheggia più.
L’offesa è lei, il menomato sei tu.
Elia si sveglia. Sul letto dollari falsi. Recriminazioni. Evasioni fiscali a domande morali. Vero, più nessun capello ma silenzi o solo canzoni. Non gli ha lasciato più nemmeno lisciare i maglioni.
Si chiede che giorno è.
Lei sta arrotolata su un fianco con la guancia serena di chi dorme felice. Lui la ama lì lo stesso.
La accarezza piano.
Non ti far sentire, non far rumore altrimenti… non vedo perché mi devi svegliare, dove vai? Perché non dormi, che mi fai? A quest’ora che vuoi?
Un picchio petulante che fa buchi, incessante. Meglio non svegliarla nemmeno per dirle ti amo dentro a una nuova frase che cambia le cose: “meno male che ti amo” e “purtroppo ti amo” raccontano due storie diverse.
Inevitabilmente si riducono, entrambe, in parole perse. Sconfitto, tra se e sé, gli scappa una lacrima. Raccoglie le sue minime cose, si trascina piano la porta ma, prima, l’ultimo sguardo al divano e a tutti quei leoni, lasciati lì, morti. Tutti i suoi trofei.
Nessuno può capire mai.
Perché la ami solo tu lo sai.
Assunto per le scale, l’orario è sempre lo stesso. Incontrando Elia se la tira adesso, da signore. Ha messo su peso, pare un uomo finalmente, i capelli scuri colorati, gli occhi vividi e le carni a colori. Con quelle ottocento euro ha comprato pure dei fiori, ha messo il vaso fuori dalla porta, sul pianerottolo bene in vista. Elia sulle scale gli cede necessariamente il passo. Assunto gli chiude il portone sul naso. Elia lo deve aprire di nuovo per sé. Assunto gli chiude il cancello sul naso. Elia lo deve aprire di nuovo per sé.
Elia ha le movenze da “ultima volta”. Ha chiuso perfettamente quella porta. E senza nemmeno stressare la sua mania: controllare due e tre volte… non servirà.
Non tornerà mai più.
La volete sapere la verità? Elia qualche tempo dopo l’ha chiamato il carabiniere che la sa. (Non vi posso dire come ma questo il suo mestiere, bene lo fa).
Guardi attentamente cosa scriveva Assunto, nessuno entra alle ventitré, nessuno che esce al mattino.
Tutti i giorni: nessuno, nessuno…
Ed era vero se si considera il portoncino.
Aveva ragione amico mio, e il suo piano non era sbagliato, l’unico modo per smascherarla era ingaggiare lui, Assunto, ma non ci ha ragionato, l’ha ingaggiato pure lei. In ginocchio, gli ha fatto più di una preghiera.
Aveva degli uomini lei, come fa a dir di no? Non lo dice infatti. Non dice nulla.
Può farlo, ci pensi bene amico mio, solo se di cognome fan Nessuno.
Nessuno in treno, Nessuno in aeroporto.
Nessuno a casa mia. E taglia corto.
Ha cercato su facebook? Mi dica solo che non ci aveva pensato. Ai tempi d’oggi non indagare sui social è assimilabile a reato, una follia.
Assunto… scrivi che non è passato nessuno, aveva sussurrato docile al suo collo lei, la sua mano e un bicchiere di vino, quando lo aveva scoperto, perché sì, diciamolo pure, Assunto non era certo un furetto ma, di certo, più tendente al cretino.
Per un po’ ti curo io.
I rumori li facciamo noi e, dopo, dormi quanto vuoi.
Assunto due esitazioni ma non vedeva una donna da diverse stagioni. In base al suono percepito per tutti quei mesi si regolò sulle prestazioni, era gratis, efficace ne aveva ragioni. La proposta fu dunque bene accolta.
Assunto, giusto che poi, a Elia, pareva risorto.
Adesso era la puttana unica numero sei. Sì perché, senza contare Elia, supposto numero zero, i numeri cinque, quattro, tre, due e uno l’hanno abbandonata pian piano e, sola, una donna, una donna così… da sola, è, nella vita di un uomo, nessuno. Nessuno, sul rigo bianco degli impegni di una vita, Nessuno, lettera maiuscola come un cognome, ma blu cerchiato.
<p value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="72" height="80">**********Volevo dire, anche se non importa molto quello che penso io…
Va bè… è mia personale opinione che, come diceva mia nonna in maniera generica e universale, quindi applicabile a “occhessia”: che “u supecchiu è come u mancanti”.
Non può essere amore se te ne fai tutti “pianti”.
Non può essere vero se è una bugia.
Non può essere “sano” sesso se è una mania.
Ci sono persone che sono loro stesse una bugia. Poi ci sono quelle con patologia. E qui litigherò ferocemente con la mia amica che sostiene che non tutto è malattia.
Sì è no.
Sì e no, amica mia.
Il web, che ci viene oggi più immediato consultare, è pieno d’informazioni sulle patologie dell’amore. Ma pure le librerie eh. Quei luoghi di amena bellezza con la carta che crocchia… già. Dipendenze compulsive dal sesso, dipendenze affettive, fobie simpatiche come la paura del 666 etc… e un elenco che paiono comandamenti e sembra quasi male non averne una al giorno d’oggi, un po’ come i tatuaggi, non ce l’ho, non ce l’ho… aspetta aspetta…sì ce l’ho. Ah ora posso “fumare”.
Chi sviluppa dipendenze, e in questo caso, dal sesso, a quel che ho capito, anestetizza la propria vita emotiva e non sempre in maniera consapevole. Convoglia tanto frustrazioni quanto sentimenti importanti come l’amore e l’attaccamento, considerati più sani ma pericolosi ed estranei, addirittura immotivati e invalidanti, in una ricerca spasmodica di “indipendenza” tuffandosi a pesce dentro qualche altra cosa. invalidante, che è la dipendenza affettiva. Crede così di avere il pieno controllo, di entrambe.
Il traditore seriale è in genere capace di convincere una statua di marmo di essere scesa dal monumento, aver chiamato un taxi essere andata a fare pipì all’autogrill e poi essere tornata a posto. O che le mutande blu con il pizzo sono le vostre e opzione A, voi siete maschi e pizzo non ne usate, B voi siete femmine e magari di blu non ne indossereste manco regalate o sotto minaccia, una sì, volendo: se non le indossi ti tradisco. (Io direi di ordinarne un pallet, non si sa mai).
Nel migliore dei casi i traditori siete voi, sappiatelo.
Se cambiaste i connotati di Elia e Assunto in quelli di una donna e al contrario quelli di “lei” in quelli di un uomo, si legittimerebbe meglio la figura del cacciatore?
Sento mormorii di “È masculu, è nommale”. Bah, a ogni modo, nel caso attuale non vi posso riscrivere gli aggettivi che mi sono stati suggeriti. Eh no, eh? Eh no.
Sapreste dirmi chi ha vinto e chi ha perso in questa storia?
Chi ha vinto cosa? Chi ha perso e quanto?
Dolore. Dolore dall’uno e dall’altro canto. E probabili irritazioni e pruriti genitali. Se non peggio. Ma, quasi sicuramente, grosse coltellate alla purezza e alla dignità di chi ama e subisce e non tradisce, ma non perché frena le sue pulsioni, non si frusta di notte con “la curria”, semplicemente perché considera esclusivo e intimo il suo amore. Muore nel confronto con l’oggetto salvifico con cui è stato cornificato. Che viene svilito dallo sguardo di uno che sa chi c’era quella notte quando Elia non era là e sgnignazza. Che tristezza. Fatto salvo anche che le coppie siano libere di scegliere come vivere la sessualità, le coppie. Scrivi: coppie. Le coppie significa insieme… (Trii e successivi non sono contemplati qui per difficoltà di gestione, non saprei come fare). Onore al merito però: non è una fatica bestiale gestire un flusso di amanti, ricordare dettagli, appuntamenti, luoghi, baggianate giganti?
Quando si dice “ hai ‘n misteri ‘nde manu”. La nostra coprotagonista sarebbe ottima candidata: attrice, moderatore, segretaria, consulente del lavoro, vigile urbano, soubrette, usignolo, contabile, trapezista… Di fame non muore. Di fame. Elia, non ti preoccupare.
(in attesa di revisione dei termini dialettali inseriti nel testo)