Parli con il cane, con l’aspirapolvere, con il secchio, con le pietre.
Ti vedo sì.
Ti ho visto fare cose assurde o il niente più assoluto.
So che saresti capace di mettere il cane nel microonde e il pollo nella cuccia.
Il pollo crudo. Il cane vivo… per poi tornare di corsa a sistemare il cane. Odi il tempo se passa in fretta, se porta al buio, se non è ricco di cose, se hai sonno, se ti ruba le idee. Odi quelle ore in cui la luce si diluisce e si sperpera tra le foglie e poi le spegne.
Odi guidare di notte. Sentire tic tac quando si rinnova sul calendario qualsiasi data che riesuma dolore. Proprio non lo sopporti, no. So che non vedi l’ora di partire e subito dopo di tornare. Che odi trovare fuori da qui un mondo che sa ancora di radica di noce, di marmi anni ‘70, di bordure dorate e lampadari kitsch, la gente bianca, la faccia come di farina, la pelle screpolata, l’odore di chiuso come se dormisse la sera in un armadio, il bicchiere sfocato del bar, i graffi sulle cose.
I capelli sporchi. Il tempo che stringi, dilati, deformi, che percorri avanti e indietro per restare sempre lì sul passato a quelle ore accumulatesi come fasce sulla tua carne e che stringono, tirano, si allungano. Legano. Diffondono.
Stanno lì quelle ore come mille voci da mille megafoni che urlano per tutte le direzioni.
So che ami il tempo irradiato di sole, ridere, sognare, che vorresti avermi con te ma ti dimentichi di farmi riparare. Le lancette svenute sulle 3:33 di un giorno qualunque di qualche tempo fa. Mai più tic tac. E basterebbe un orologiaio, alacre, onesto e sognatore. Ma è fatica anche solo pensare di andare. Riparare. Ripartire. Odi.