Qualcuno sa come trasformare un ululone in metalmeccanico?
Cioè. Rospo. Un rospo in metalmeccanico?
Qualcuno saprebbe dirmi come annullare una magia?
Io, cioè, ho fatto un danno o quantomeno, come al mio solito, ho letto un incantesimo in maniera sbrigativa: questo ce l’ho, questo lo so, sì, andiamo avanti, va bene, questo è lo stesso, origano, incenso, piuma di martin-pescatore brasiliano ma di padre tedesco, dove lo trovo adesso? Olio e limone, scrivi due righe, penna blu, mi raccomando poi fai un salto, la verbena non ce l’ho, metto il cardamomo fa lo stesso, va bene, fatto. E per tornare indietro? Fa niente, fa lo stesso.
Il metalmeccanico è diventato rospo. Non un rospo comune, no. L’ululone. Pupilla a cuore e pancia di colore giallo. Bello. Bello com’era bello. Finalmente un po’ di silenzio. Certo, non è stato semplice, c’è voluto lo stagno, sì ovvio, anche un compagno. Non volevo certo che stesse male. Avevo solo bisogno di silenzio. E quindi a cercare: di cosa si nutre, di cosa ha bisogno, la lattuga come la tartaruga, no, il fieno come i conigli, no, gli insetti. Ecco. Le mie zanzare… tanto le allevo nel frigo. Ne ho a quantità.
Fin qui tutto bene ma poi mi ha riconosciuta, saltava felice da una parte all’altra e poi mi ha vista meglio. Ha capito di non essere nato rospo, sì, mi osservava e prendeva le misure. Ha iniziato a cantare di notte. Esagerato. Credo facesse a gara con la cicala, o magari voleva mangiarla, il fatto è che nel giro di due giorni era un bordello. Adesso sono anni, davvero non lo reggo più.
Datemi una mano, per favore.
E poi mi osserva tutto il tempo.
Sapete se i rospi possono uccidere gli uomini?
Io un po’ di timore ce l’ho.
E pure il suo amico. Sapete che mi guardano, mi puntano insieme e saltellano verso di me, perfettamente allineati?
Sapete se hanno la capacità di architettare un piano, un omicidio ad esempio?
Mi capita che quando vado al bagno li trovo lì, mi fissano dal piatto della doccia, l’occhio umido, scoperti come i miei peccati, illuminati dal led sopra lo specchio, niente con cui mimetizzarsi, nessuna possibilità di sparire.
A volte li sfido. Vincono loro. Con gli occhi grossi.
Mia nonna lo diceva, si ficiru l’occhi ’rossi*, ma in quel caso significava un’altra cosa, ve lo spiego poi che adesso è tardi, mezzanotte e 56.
Spero di sopravvivere a questa notte.
Nel caso aveste il contro-incantesimo non esitate a scrivermi, assolutamente.
…Certo sarebbe meglio riuscire a dormire ma ho un’ansia. Un’ansia che non vi dico. Mi ricorda la stessa di quando da piccola da qualche parte lessi un articolo sul cacao: il cacao sta finendo, scrivevano. Vi sembra modo? Mi misi un’ansia…
volevo sapere cosa potevo fare io perché questa disgrazia non si abbattesse sulle nostre teste. Mi sembrava
impossibile, una tragedia, volevo fare la scorta per tutta la vita, volevo correre per strada, sfasciare le saracinesche, mordere le cassine*, immaginavo la mia vita senza cioccolata: non riuscivo proprio a immaginare la mia vita senza cioccolata. Non avevo pace. Poi da qualche parte l’ho dimenticato. Mi viene in mente adesso.
Immaginavo la mia vita senza Alessandro. Gluck, Gluck, fush, splack, shhhhhh, cra, ecco.
Il rospo.
Pensavo di avere risolto.
Certo sarà arrabbiato perché non può andare a fare sport, la pipì misurando il getto, non può andare da nessuna parte veramente.
Io lo giuro, non è una punizione, almeno secondo me, era soltanto una soluzione.
Sarebbe stata temporanea, non credevo irreversibile. È che sono frettolosa. ’A jatta priscialora fa ’i jattareddi orbi* diceva lei. Sempre lei, mia nonna. E chi sennò?
Era un giorno di dieci anni fa.
Qualsiasi sia il momento in cui state leggendo, contate fino a dieci a ritroso per favore.
Il “dieci anni fa” ha una magia: colora di grigio le immagini, attenua i colori, il sole più pallido e meno accecante, non credete?
Quindi era un giorno di dieci anni fa.
Sicilia. Calda, scostumata, afosa, piena di mosche, un sole piccante, i grilli, i fichi, le melenzane fritte, Acchiana ca è prontu, assìttati a taùla, ‘i manu t’i lavasti? * No quella era la mia infanzia, e c’era pure la ricotta salata grattugiata.
Comunque Sicilia, dieci anni fa. Dicembre.
Si faceva molto di più l’amore, certo, almeno io, e si discuteva molto meno circa gli alieni. Facebook era ancora un mistero (’n’opra d’o diàulu, a’a nonna…) ma si parlava ugualmente a vanvera di argomenti di cui non si sapeva assolutamente nulla ma con presunzione e prepotenza.
Quel giorno di dieci anni c’ero anch’io, Silvia.
Chiamatemi Silvia che sa di austera, regolare. Io una Silvia la immagino pulita, chiara di capelli e di pelle, minuta, ma determinata.
Solo che non ero minuta, austera e schizzinosa, forse chiara, o forse mi piacerebbe esserlo, le spalle piccine ma un po’ più dritte, le braccia esili e meno nutrite… sì mi piacerebbe. Bella Silvia.
Io lavoravo per una grossa industria. La Provincia di Catania aveva indetto una gara di cronoscalata automobilistica sull’Etna, e aveva invitato a parteciparvi tutte le aziende della zona commerciale, noi compresi.
Quindi quel giorno di dieci anni fa i nostri capi presero al volo l’opportunità: vincendo avremmo avuto visibilità. La visibilità, sì. Avevamo in progetto il lancio di un prodotto miracoloso e la pubblicità gratis è come il magnesio durante la fase premestruale: essenziale, calma le ansie e ingrossa le pance, in poche parole: investimenti.
Composero istantaneamente una squadra di dieci persone e inserirono anche me in questa deliziosa decina, non di certo per la velocità di crociera delle mie passeggiate in auto, famosissime, ma per le mie qualità: sedativa per pacificare gli animi in rivolta e quella mistico-oculare di riuscire a vedere la luce anche al buio.
Ci fornirono un sistema di comunicazione radio con le cuffie, un giubbotto identico per tutti, estintori di ultima generazione e tre autovetture fiammanti. Eravamo una squadra. Il logo della ditta sul davanti degli indumenti, sul cuore, ci dava l’idea di appartenenza.
(A quei tempi ero felice di appartenere a qualcosa, fosse anche e solo un impianto elettrico, mi sarebbe bastato essere un interruttore o comunque qualcosa in più di una placchetta, anche un mammut, insomma.)
Quindi quel giorno di dieci anni fa io appartenni.
Segnatevelo.
Il mio compito era analizzare il profilo psicologico di tutti i membri della decina e attribuire un ruolo ciascuno. I piloti con i copiloti e i supporters. Nondimeno
ogni pilota poteva portare un cane in macchina perché erano i tempi in cui si cercava di educare le persone all’idea che un cucciolo non nasce e spera di essere scelto necessariamente per farsi legare a un palo in campagna, ma può servire da conforto, talvolta, e talvolta ci salva la vita, e nel caso specifico (facendo corna), che qualcuno fosse volato giù per una scarpata, il cane torna sempre alle 20:00 perché vuole i croccantini, e dopo cena magari ti porta sul luogo dell’incidente.
Geniale.
Ovviamente noi (tranne uno) eravamo le ultime nove ruote del carro della nostra azienda, tutti operai o poco più, gente che ci sperava, quelli che la forza siete voi, che senza di voi nessun risultato e non ci fa niente se ci hanno visto le blatte a mensa, se l’infermeria è scoperta stanotte, siamo tra i primi lontano dai mesi di bilancio, siamo in crisi all’avvicinarsi del premio produzione. La forza siete voi. Noi. Magari vincendo ci avrebbero promosso, speravamo.
Stabilii il ruolo di ogni elemento, i tre piloti, Franco, Dario e Luigi che chiamai UNO DOS e TRES, non si amavano particolarmente, condizione che era invece essenziale che fosse rispettata tra pilota e copilota, perché il cane sì, c’era, ma era oggettivamente limitato nelle iniziative che comportavano uso di cambio e sterzo.
I copiloti erano Alessandro, Diego, e Luca e andavano in coppia a UNO, DOS e TRES nello stesso ordine con cui li ho scritti.
UNO Franco e Alessandro.
DOS Dario e Diego
TRES Luigi e Luca
Alla decina appartenevano il settimo, Elio, per la parte telematica, l’ottavo, Gianni, che era per metà meccanico e metà elettricista, il nono, Carmelo, che a mio avviso era esperto di panini al prosciutto quanto Poldo di Braccio di Ferro, ma niente più. Bello Poldo.
Franco.
La sua elezione, per la prima macchina in gara, era l’unica cosa che mi era stata suggerita, potevo scegliere Franco, a piacere mio, volendo, tra Franco e Franco, mi dissero tra una riunione e l’altra. Io avevo pensato a Franco. Esatto.
Alessandro.
Tra i copiloti quell’Alessandro…
Quell’Alessandro…
Quell’Alessandro era veramente un bel ragazzo. Un metro e ottanta, capelli neri sulle spalle, neri i boccoli si schiudevano sulla nuca, naso definito, perfetto, spalle da uomo.
Non le so definire le spalle da uomo. Fate voi.
La mia idea è quella di poterci entrare in un abbraccio e sentire che sono solide, montanare, un’impalcatura. Barbetta di due giorni(sempre), occhio verde contornato come se avesse messo l’Eye liner cinque minuti prima. Belle mani, unghie a mandorla e un colorito bruno dorato come baciato dal sole e unto di unguenti, le braccia nervose venate.
Era tra i più anziani: si narra fosse lì quando furono eretti i pilastri della ditta, ispezionava le colate di cemento, per cui godeva di grande fiducia e libertà.
Brillava a prescindere: anche i suoi denti erano sempre più bianchi di quelli degli altri. Pensate alle foto sul podio.
La sua passione gli elicotteri, ed era un punto estremamente a suo favore. Lo so perché qualcuno l’aveva sottolineato sulla sua scheda in modo virile.
Non parlava mai. Chissà perché.
Gli altri.
Non li descrivo nemmeno, anzi sì, pantaloni di jeans del 1980 su culi calati e pantaloni calati di più e sgradevoli scarpe scamosciate color cannella e il dopobarba della micciera* che era un tipico bazar anni settanta nella provincia catanese dove era possibile acquistare di tutto, dal latte alla lana per le sciarpe. Punto.
Uno era biondo. Il resto senza capelli.
Alessandro li aveva tutti.
Si provava ogni giorno senza usare le tute ufficiali, ovviamente. Purtroppo.
Io però a casa indossavo la mia mettendo su il cd di Moby* immaginando quella corsa, quella alla Bourne Identity* …ero velocissima, poi la posavo sulla cassapanca, la lisciavo e aspettavo, tornavo nella stanza, le toglievo un pelucco, spostavo una grinza e aspettavo. La lisciavo e aspettavo.
Poi sempre a casa, dopo la prima birra, mi vedevo alla
guida, finita la gara, mettere la prima e scappare con lei, la tuta e la macchina. Loro.
Quei sedili crema…
Amavo una macchina, cioè mi resi conto di amarla quando mi feci beccare con la microfibra e il detergente delicato nettare i suoi specchietti e darle i bacetti.
Anche i canuzzi Billi, Jack e Guendalina avevano la divisa ufficiale e alla femminuccia mi concessi di regalare un paio di occhiali da moto. Mi avevano dato una carta di credito per le spese necessarie e non vi dico la marca dei croccantini che acquistai, per dignità.
In pochissimo tempo eravamo affiatati ed efficienti, io portavo sempre il caffè, mi amavano. Ma soprattutto eravamo già un team specializzato in pit stop d’eccellenza, quelli al bar. Non mi sbagliavo su Carmelo, esperto gourmet più di Poldo, gli altri, bontà loro, avevano qualche piccolo problema a digerire solo il veleno per topi.
Si provava senza sosta, Alessandro, ça va sans dire, aveva dei tempi eccezionali e non capivo come mai si fosse irremovibili su Franco.
E ce la metteva tutta, Franco… in meno di un mese aveva comunque raggiunto tempi favolosi.
Due giorni prima della gara, finalmente, eravamo liberi al fine di diluire lo stress prima del 6 gennaio. Pulizia dei denti e ceretta ai baffi, prove trucco per le telecamere, fondotinta che c’è, ma non si vede.
I sindacalisti ci cercavano per centri estetici per linciarci: non si contavano la quantità di straordinari, di cambi riposo, dormivamo pure a mensa con i sacchi a pelo, ma finirono a farsi la lampada con noi.
Alessandro no. L’ultima settimana avevo creduto che fosse diventato sordo-muto, poi, la sera del 5 gennaio s’inserì nella mia vita direttamente attraverso il canale più intimo, il telefono di casa.
Mi dovetti sedere perché quello che mi stava dicendo illuminava in un angolo una tragedia di grosse proporzioni e di più grossa proporzione era la soluzione che mi suggeriva dall’altro angolo. Io sola ero al centro ma restavo al buio.
Libero arbitrio, diceva. Potevo scegliere se fare come diceva lui o come diceva lui, a piacere.
Avevo in mano il libro degli incantesimi ma tentennavo. Tentennai. Non potevo.
Non l’avevo fatto nemmeno per migliorare tempi, per abbellire i piloti. Non era corretto. Lo posai.
La magia deve essere sempre l’ultima opzione e per il bene di tutti.
6 gennaio
Residence Blu Marocco a Casablanca
Le porte che davano sul terrazzo erano aperte e il vento tiepido faceva volare le immense tende bianche all’interno della stanza. Tra luce e ombra il sole faceva capolino ora sul divano, ora sul pavimento e si specchiava nelle sue scaglie. Un grillo pervicace diceva io sono qui.
Alessandro era sotto la doccia, io in mutande sul letto. La testa appesantita, i capelli pieni di nodi. La fretta. Il cameriere bussava per la colazione e non sapevo dove erano i miei vestiti, mi dicevo, una vestaglia, ci vorrebbe una vestaglia. Mi si materializzò addosso. Dopo stavo lì nella speranza di capire quella seta sotto le mie dita, guardando il vassoio appoggiato sul tavolo basso meravigliosamente intarsiato, che mi sarebbe piaciuto far capitolare nella mia valigia. Ma l’avevo e se l’avessi avuta non ci sarebbe entrato.
Ci era stato vietato di scendere al ristorante per la colazione internazionale: alle sette del mattino c’era stato un attentato due hotel più avanti al nostro e invece di farci evacuare ci avevano relegato dentro le nostre stanze, con la speranza che, per colazione, qualcuno non avesse preferito una cintura aromatizzata al piombo piuttosto che le crêpes.
Ero a disagio, sapevo che avrei patito la fame. Nella fretta non avevo preso le mie brioches.
Fretta. Da quella telefonata, fretta.
Mi versai un caffè e accesi una sigaretta cercando di dare un ordine preciso alle idee senza inquinarle con la resistenza.
Alessandro ancora umido e profumato si prese il mio caffè e pure un bacio. Umido, delicato, soddisfatto. Poi mi disse, vestiti dobbiamo essere pronti entro mezz’ora e aspettare indicazioni.
Io riflettevo sul bacio. Certe volte fanno passare la fame. Poi guardai Alessandro. Che schifo, mi dicevo, che schifo.
Avrei voluto svelare al mondo perché si lavava tanto: puzzolente come il diavolo della Tasmania.
Fu allora che intercettai una bellissima bacchetta magica farcita di pietre, le sussurrai, sei stata tu, guardando la seta.
Pensavo alla gara e mi veniva da piangere. Tutto il mio lavoro, la macchina, Guendalina con i suoi occhiali. Billi con le cuffie. Pensavo che non dovevo essere lì. Cioè qui. Sì avete capito.
Mi preparai e preparai due zaini del tour operator, con il logo terribilmente antiestetico, inserendo a forza quella bella tuta blu, che qui era inutile, ma anche la vestaglia. Dopotutto era stata una magia, non era di nessuno, non era furto.
Uscimmo. Qualcuno ci seguiva. Stressante.
Mi sembrava di essere nella pubblicità che interrompe il film appena si fa interessante. Oscena, fuori luogo. Lunga, estenuante. La scaletta era:
-Sembrare turisti.
-Sembrare turisti in viaggio di nozze e innamorati. Che schifo.
-Scrivere cartoline come turisti in viaggio di nozze e innamorati. Che schifo.
-Trovarci in piazza delle Nazioni Unite alle 12:00.
-Scambiare sproporzionato riscatto con un ostaggio pelato.
-Rientrare vivi a Catania.
Il tutto rasentava la follia. Ma i pazzi di divertono sempre, non lo dite voi, ho riso come una pazza? No? Io invece attaccai la Medina spoglia, la gente non si sentiva al sicuro ad andare per strada, così, alla fine ero carica di buste e regalini, e una sacca che non ricordavo di aver preso da nessuna parte. Alessandro diceva poi ti dico e con il dito sulla bocca faceva shhh e strizzava l’occhio anche se gli veniva male. Si era calato perfettamente nel personaggio della spia internazionale come i tizi alla rotonda vicino casa mia con la Punto verde acqua ammaccata e senza parafango, l’auricolare Bluetooth e gli occhiali neri su colletto alzato per andare a comprare il pane. Al telefono la moglie, nun ti scurdari ’a cutuletta pp’o picciriddu*.
Alle 12:00 ci sedemmo accanto a una coppia del luogo. Lei era un tizio travestita da lei e lui era un tizio. Il tizio e Alessandro si accordavano per salvare il nostro capo che era stato rapito per impedire alla nostra azienda di partecipare alla gara. Mafiosi.
Indicavano la sacca: avevo io i soldi per il riscatto, a tracolla. Dunque sapevano tutti che l’elemento chiave ero io, che equivaleva a essere imbottita di tritolo.
Il tizio era il ponte con i malviventi.
Io ero preoccupata.
Il tizio fece segno. Partimmo da lì velocemente a piedi con tutte le mie buste.
Camminavamo, correvamo, camminavamo.
Ci fu un posto preciso, in un dedalo di viuzze, in cui il riscatto passò da me a un braccio scuro a pelo riccio che si allungava fuori dal finestrino di un taxi con lo sterzo di pelliccia. Dell’ostaggio nemmeno l’ombra ma mi trovai tra le mani un biglietto scritto in inglese con una calligrafia tra il medico di guardia e il farmacista assuefatto, ci misi un poco per decriptare.
Alessandro accanto a me brandiva una pistola e indicava due autovetture.
Dopo qualche istante ci trovammo ognuno alla guida di due macchine identiche e stavamo macinando strada, in fila indiana. Il luogo indicato era a 25 chilometri fuori da Casablanca.
Chi mi aveva designato per questa cosa doveva essere veramente una volpe, io non supero mai i 53-54 km orari nemmeno se scappo dalla polizia. Bau settete e sarei morta.
Mi tremavano le gambe, mi girava la testa. Bau settete.
Giorgio, pensavo, Giorgio Davanti, quello che mi paga il mutuo. Tremavo. Un po’ sbandavo. Ma dovevo correre. Stringevo la bacchetta magica insieme al cambio.
Giorgio era uno che stimavo, aveva due figlie piccole, forse erano adottate perché erano belle e lui un vero cesso.
Dovevamo salvarlo. Depistati, quasi subito, la macchina di Alessandro fu mandata fuori strada da un SUV color argento da cui usciva il braccio di prima, quello della sacca, e mi faceva segno di seguirlo. Sola.
Dopo qualche curva, il SUV frenò di colpo, lo sportello si spalancò e qualcuno lanciò Giorgio stravolto, camicia strappata e pantaloni che una volta erano stati avana. Saltò in macchina, inversione, e ingaggiammo la corsa verso l’hotel che fu la più terribile della mia vita, nemmeno quando avevo le coliche renali al pronto soccorso avevo sofferto tanto, calcolando pure due ore di flebo e lettiga. Giorgio come stai? Silenzio.
Ricordo esattamente a che ora si spense il motore della mia macchina perché era finita la benzina, fu il momento preciso in cui pensai di essere morta e che quello era un giro di prova per l’inferno: le 12:57, molto distanti dalla meta.
Scendemmo dall’auto per salire su una moto da cross accostata per caso a una panchina. Bacchetta cara.
Giorgio si mise alla guida per una normale diffidenza sulle mie capacità di equilibrista. Io ero il passeggero che faceva corna con la mano destra per una normale diffidenza sulle sue capacità, punto.
Cambio di piano.
L’hotel era stato bruciato, Alessandro ricominciò a comunicare nelle mie cuffie, coniglio, se ne era andato, era in salvo su un motoscafo con cui dovevamo raggiungere una nave che si trovava in acque internazionali su cui c’era l’elicottero che ci avrebbe portato alla gara.
Mi sembrò molto la pubblicità dell’amaro Montepietro, in effetti una bottiglia a portata di mano non sarebbe stata male, tra una cosa e l’altra. La gara. A quest’ora era già finita. Le lacrime scavarono un solco nel mio fondotinta. L’elicottero ci portò poi in azienda così lentamente che se
fosse stata la pubblicità dell’amaro Montepietro avremmo fatto una figura di merda.
Arrivammo.
Franco aveva vinto.
La mia delusione si doveva poter risarcire. Dopo tutto il mio impegno, le prove della tuta. Si ringrazia per l’organizzazione il capo della squadra. Io Silvia. Niente. Silvia non c’era. Pure i cameramen erano andati via.
Ma c’era la macchina di Franco, potevo ancora portare a termine il sogno.
Il mio dubbio più grande e feroce era… c’era abbastanza diesel per arrivare a casa?
Tra me e la macchina di Franco si mise Alessandro. No, si mise proprio al posto di guida.
Il diesel divenne l’ultimo dei miei problemi.
Sapete che c’è?
Alessandro non lo avevo mai sentito parlare prima di Casablanca, sì, a ragion veduta.
Sarebbe stato meglio fosse stato muto.
A lui il capo regalò la macchina, a me dieci panettoni avanzati dal Natale. Però la tuta era mia, potevo correrci in cortile con i miei cani. Azzardando avrei potuto anche con i rollerblade… allora pur di avere la macchina mi presi pure lui. Tutti pensarono fosse normale, si diceva fosse stata una notte di fuoco a Casablanca. Che schifo. Ma la macchina… quei sedili crema.
Alessandro venne a stare a casa mia.
Alessandro parla. Parla. Parla quando si sblocca, quando entra in confidenza. Da allora parla, parla. Scusate, gracida…
Mi sono persa il contro-incantesimo, la bacchetta magica è depressa perché non si trova con il clima e si è ripresa la vestaglia.
Ho provato di tutto. Sì, ho trovato un incantesimo con i capelli di Giovanna, una qualsiasi.
Ho messo un annuncio: 25 euro per una ciocca di Giovanna.
Ho rifatto il calderone, niente.
Poco dopo Giovanna è venuta a stare da me. Sospetto di avere sbagliato del tutto.
Anche Giovanna parla, parla. Parla. Non si ferma mai.
Per zittire lei mi serve la coda di un rospo.
Fate voi.
Pag.2 *si sono fatti gli occhi grossi
Pag.3 *cassine: persiane costituite da listelli di legno in
genere di colore verde bottiglia o
marrone scuro
Pag.4 *la gatta frettolosa fa i gattini ciechi
Pag.4 *Sali che è pronto, siediti a tavola, hai lavato le
mani?
Pag.4 *un’opera del diavolo
Pag.8 *micciera: merceria
*Extreme Ways colonna sonora finale del film The
Bourne Identity
Pag.13 *non dimenticare la cotoletta per il bambino