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I capelli di Giovanna

Qualcuno sa come trasformare un ululone in metalmeccanico?

Cioè. Rospo. Un rospo in metalmeccanico?

Qualcuno saprebbe dirmi come annullare una magia?

Io, cioè, ho fatto un danno o quantomeno, come al mio solito, ho letto un incantesimo in maniera sbrigativa: questo ce l’ho, questo lo so, sì, andiamo avanti, va bene, questo è lo stesso, origano, incenso, piuma di martin-pescatore brasiliano ma di padre tedesco, dove lo trovo adesso? Olio e limone, scrivi due righe, penna blu, mi raccomando poi fai un salto, la verbena non ce l’ho, metto il cardamomo fa lo stesso, va bene, fatto. E per tornare indietro? Fa niente, fa lo stesso.

Il metalmeccanico è diventato rospo. Non un rospo comune, no. L’ululone. Pupilla a cuore e pancia di colore giallo. Bello. Bello com’era bello. Finalmente un po’ di silenzio. Certo, non è stato semplice, c’è voluto lo stagno, sì ovvio, anche un compagno. Non volevo certo che stesse male. Avevo solo bisogno di silenzio. E quindi a cercare: di cosa si nutre, di cosa ha bisogno, la lattuga come la tartaruga, no, il fieno come i conigli, no, gli insetti. Ecco. Le mie zanzare… tanto le allevo nel frigo. Ne ho a quantità.

Fin qui tutto bene ma poi mi ha riconosciuta, saltava felice da una parte all’altra e poi mi ha vista meglio. Ha capito di non essere nato rospo, sì, mi osservava e prendeva le misure. Ha iniziato a cantare di notte. Esagerato. Credo facesse a gara con la cicala, o magari voleva mangiarla, il fatto è che nel giro di due giorni era un bordello. Adesso sono anni, davvero non lo reggo più.

Datemi una mano, per favore.

E poi mi osserva tutto il tempo.

Sapete se i rospi possono uccidere gli uomini?

Io un po’ di timore ce l’ho.

E pure il suo amico. Sapete che mi guardano, mi puntano insieme e saltellano verso di me, perfettamente allineati?

Sapete se hanno la capacità di architettare un piano, un omicidio ad esempio?

Mi capita che quando vado al bagno li trovo lì, mi fissano dal piatto della doccia, l’occhio umido, scoperti come i miei peccati, illuminati dal led sopra lo specchio, niente con cui mimetizzarsi, nessuna possibilità di sparire.

A volte li sfido. Vincono loro. Con gli occhi grossi.

Mia nonna lo diceva, si ficiru l’occhi ’rossi*, ma in quel caso significava un’altra cosa, ve lo spiego poi che adesso è tardi, mezzanotte e 56.

Spero di sopravvivere a questa notte.

Nel caso aveste il contro-incantesimo non esitate a scrivermi, assolutamente.

…Certo sarebbe meglio riuscire a dormire ma ho un’ansia. Un’ansia che non vi dico. Mi ricorda la stessa di quando da piccola da qualche parte lessi un articolo sul cacao: il cacao sta finendo, scrivevano. Vi sembra modo? Mi misi un’ansia…

volevo sapere cosa potevo fare io perché questa disgrazia non si abbattesse sulle nostre teste. Mi sembrava

impossibile, una tragedia, volevo fare la scorta per tutta la vita, volevo correre per strada, sfasciare le saracinesche, mordere le cassine*, immaginavo la mia vita senza cioccolata: non riuscivo proprio a immaginare la mia vita senza cioccolata. Non avevo pace. Poi da qualche parte l’ho dimenticato. Mi viene in mente adesso.

Immaginavo la mia vita senza Alessandro. Gluck, Gluck, fush, splack, shhhhhh, cra, ecco.

Il rospo.

Pensavo di avere risolto.

Certo sarà arrabbiato perché non può andare a fare sport, la pipì misurando il getto, non può andare da nessuna parte veramente.

Io lo giuro, non è una punizione, almeno secondo me, era soltanto una soluzione.

Sarebbe stata temporanea, non credevo irreversibile. È che sono frettolosa. ’A jatta priscialora fa ’i jattareddi orbi* diceva lei. Sempre lei, mia nonna. E chi sennò?

Era un giorno di dieci anni fa.

Qualsiasi sia il momento in cui state leggendo, contate fino a dieci a ritroso per favore.

Il “dieci anni fa” ha una magia: colora di grigio le immagini, attenua i colori, il sole più pallido e meno accecante, non credete?

Quindi era un giorno di dieci anni fa.

Sicilia. Calda, scostumata, afosa, piena di mosche, un sole piccante, i grilli, i fichi, le melenzane fritte, Acchiana ca è prontu, assìttati a taùla, ‘i manu t’i lavasti? * No quella era la mia infanzia, e c’era pure la ricotta salata grattugiata.

Comunque Sicilia, dieci anni fa. Dicembre.

Si faceva molto di più l’amore, certo, almeno io, e si discuteva molto meno circa gli alieni. Facebook era ancora un mistero (’n’opra d’o diàulu, a’a nonna…) ma si parlava ugualmente a vanvera di argomenti di cui non si sapeva assolutamente nulla ma con presunzione e prepotenza.

Quel giorno di dieci anni c’ero anch’io, Silvia.

Chiamatemi Silvia che sa di austera, regolare. Io una Silvia la immagino pulita, chiara di capelli e di pelle, minuta, ma determinata.

Solo che non ero minuta, austera e schizzinosa, forse chiara, o forse mi piacerebbe esserlo, le spalle piccine ma un po’ più dritte, le braccia esili e meno nutrite… sì mi piacerebbe. Bella Silvia.

Io lavoravo per una grossa industria. La Provincia di Catania aveva indetto una gara di cronoscalata automobilistica sull’Etna, e aveva invitato a parteciparvi tutte le aziende della zona commerciale, noi compresi.

Quindi quel giorno di dieci anni fa i nostri capi presero al volo l’opportunità: vincendo avremmo avuto visibilità. La visibilità, sì. Avevamo in progetto il lancio di un prodotto miracoloso e la pubblicità gratis è come il magnesio durante la fase premestruale: essenziale, calma le ansie e ingrossa le pance, in poche parole: investimenti.

Composero istantaneamente una squadra di dieci persone e inserirono anche me in questa deliziosa decina, non di certo per la velocità di crociera delle mie passeggiate in auto, famosissime, ma per le mie qualità: sedativa per pacificare gli animi in rivolta e quella mistico-oculare di riuscire a vedere la luce anche al buio.

Ci fornirono un sistema di comunicazione radio con le cuffie, un giubbotto identico per tutti, estintori di ultima generazione e tre autovetture fiammanti. Eravamo una squadra. Il logo della ditta sul davanti degli indumenti, sul cuore, ci dava l’idea di appartenenza.

(A quei tempi ero felice di appartenere a qualcosa, fosse anche e solo un impianto elettrico, mi sarebbe bastato essere un interruttore o comunque qualcosa in più di una placchetta, anche un mammut, insomma.)

Quindi quel giorno di dieci anni fa io appartenni.

Segnatevelo.

Il mio compito era analizzare il profilo psicologico di tutti i membri della decina e attribuire un ruolo ciascuno. I piloti con i copiloti e i supporters. Nondimeno

ogni pilota poteva portare un cane in macchina perché erano i tempi in cui si cercava di educare le persone all’idea che un cucciolo non nasce e spera di essere scelto necessariamente per farsi legare a un palo in campagna, ma può servire da conforto, talvolta, e talvolta ci salva la vita, e nel caso specifico (facendo corna), che qualcuno fosse volato giù per una scarpata, il cane torna sempre alle 20:00 perché vuole i croccantini, e dopo cena magari ti porta sul luogo dell’incidente.

Geniale.

Ovviamente noi (tranne uno) eravamo le ultime nove ruote del carro della nostra azienda, tutti operai o poco più, gente che ci sperava, quelli che la forza siete voi, che senza di voi nessun risultato e non ci fa niente se ci hanno visto le blatte a mensa, se l’infermeria è scoperta stanotte, siamo tra i primi lontano dai mesi di bilancio, siamo in crisi all’avvicinarsi del premio produzione. La forza siete voi. Noi. Magari vincendo ci avrebbero promosso, speravamo.

Stabilii il ruolo di ogni elemento, i tre piloti, Franco, Dario e Luigi che chiamai UNO DOS e TRES, non si amavano particolarmente, condizione che era invece essenziale che fosse rispettata tra pilota e copilota, perché il cane sì, c’era, ma era oggettivamente limitato nelle iniziative che comportavano uso di cambio e sterzo.

I copiloti erano Alessandro, Diego, e Luca e andavano in coppia a UNO, DOS e TRES nello stesso ordine con cui li ho scritti.

UNO Franco e Alessandro.

DOS Dario e Diego

TRES Luigi e Luca

Alla decina appartenevano il settimo, Elio, per la parte telematica, l’ottavo, Gianni, che era per metà meccanico e metà elettricista, il nono, Carmelo, che a mio avviso era esperto di panini al prosciutto quanto Poldo di Braccio di Ferro, ma niente più. Bello Poldo.

Franco.

La sua elezione, per la prima macchina in gara, era l’unica cosa che mi era stata suggerita, potevo scegliere Franco, a piacere mio, volendo, tra Franco e Franco, mi dissero tra una riunione e l’altra. Io avevo pensato a Franco. Esatto.

Alessandro.

Tra i copiloti quell’Alessandro…

Quell’Alessandro…

Quell’Alessandro era veramente un bel ragazzo. Un metro e ottanta, capelli neri sulle spalle, neri i boccoli si schiudevano sulla nuca, naso definito, perfetto, spalle da uomo.

Non le so definire le spalle da uomo. Fate voi.

La mia idea è quella di poterci entrare in un abbraccio e sentire che sono solide, montanare, un’impalcatura. Barbetta di due giorni(sempre), occhio verde contornato come se avesse messo l’Eye liner cinque minuti prima. Belle mani, unghie a mandorla e un colorito bruno dorato come baciato dal sole e unto di unguenti, le braccia nervose venate.

Era tra i più anziani: si narra fosse lì quando furono eretti i pilastri della ditta, ispezionava le colate di cemento, per cui godeva di grande fiducia e libertà.

Brillava a prescindere: anche i suoi denti erano sempre più bianchi di quelli degli altri. Pensate alle foto sul podio.

La sua passione gli elicotteri, ed era un punto estremamente a suo favore. Lo so perché qualcuno l’aveva sottolineato sulla sua scheda in modo virile.

Non parlava mai. Chissà perché.

Gli altri.

Non li descrivo nemmeno, anzi sì, pantaloni di jeans del 1980 su culi calati e pantaloni calati di più e sgradevoli scarpe scamosciate color cannella e il dopobarba della micciera* che era un tipico bazar anni settanta nella provincia catanese dove era possibile acquistare di tutto, dal latte alla lana per le sciarpe. Punto.

Uno era biondo. Il resto senza capelli.

Alessandro li aveva tutti.

Si provava ogni giorno senza usare le tute ufficiali, ovviamente. Purtroppo.

Io però a casa indossavo la mia mettendo su il cd di Moby* immaginando quella corsa, quella alla Bourne Identity* …ero velocissima, poi la posavo sulla cassapanca, la lisciavo e aspettavo, tornavo nella stanza, le toglievo un pelucco, spostavo una grinza e aspettavo. La lisciavo e aspettavo.

Poi sempre a casa, dopo la prima birra, mi vedevo alla

guida, finita la gara, mettere la prima e scappare con lei, la tuta e la macchina. Loro.

Quei sedili crema…

Amavo una macchina, cioè mi resi conto di amarla quando mi feci beccare con la microfibra e il detergente delicato nettare i suoi specchietti e darle i bacetti.

Anche i canuzzi Billi, Jack e Guendalina avevano la divisa ufficiale e alla femminuccia mi concessi di regalare un paio di occhiali da moto. Mi avevano dato una carta di credito per le spese necessarie e non vi dico la marca dei croccantini che acquistai, per dignità.

In pochissimo tempo eravamo affiatati ed efficienti, io portavo sempre il caffè, mi amavano. Ma soprattutto eravamo già un team specializzato in pit stop d’eccellenza, quelli al bar. Non mi sbagliavo su Carmelo, esperto gourmet più di Poldo, gli altri, bontà loro, avevano qualche piccolo problema a digerire solo il veleno per topi.

Si provava senza sosta, Alessandro, ça va sans dire, aveva dei tempi eccezionali e non capivo come mai si fosse irremovibili su Franco.

E ce la metteva tutta, Franco… in meno di un mese aveva comunque raggiunto tempi favolosi.

Due giorni prima della gara, finalmente, eravamo liberi al fine di diluire lo stress prima del 6 gennaio. Pulizia dei denti e ceretta ai baffi, prove trucco per le telecamere, fondotinta che c’è, ma non si vede.

I sindacalisti ci cercavano per centri estetici per linciarci: non si contavano la quantità di straordinari, di cambi riposo, dormivamo pure a mensa con i sacchi a pelo, ma finirono a farsi la lampada con noi.

Alessandro no. L’ultima settimana avevo creduto che fosse diventato sordo-muto, poi, la sera del 5 gennaio s’inserì nella mia vita direttamente attraverso il canale più intimo, il telefono di casa.

Mi dovetti sedere perché quello che mi stava dicendo illuminava in un angolo una tragedia di grosse proporzioni e di più grossa proporzione era la soluzione che mi suggeriva dall’altro angolo. Io sola ero al centro ma restavo al buio.

Libero arbitrio, diceva. Potevo scegliere se fare come diceva lui o come diceva lui, a piacere.

Avevo in mano il libro degli incantesimi ma tentennavo. Tentennai. Non potevo.

Non l’avevo fatto nemmeno per migliorare tempi, per abbellire i piloti. Non era corretto. Lo posai.

La magia deve essere sempre l’ultima opzione e per il bene di tutti.

6 gennaio

Residence Blu Marocco a Casablanca

Le porte che davano sul terrazzo erano aperte e il vento tiepido faceva volare le immense tende bianche all’interno della stanza. Tra luce e ombra il sole faceva capolino ora sul divano, ora sul pavimento e si specchiava nelle sue scaglie. Un grillo pervicace diceva io sono qui.

Alessandro era sotto la doccia, io in mutande sul letto. La testa appesantita, i capelli pieni di nodi. La fretta. Il cameriere bussava per la colazione e non sapevo dove erano i miei vestiti, mi dicevo, una vestaglia, ci vorrebbe una vestaglia. Mi si materializzò addosso. Dopo stavo lì nella speranza di capire quella seta sotto le mie dita, guardando il vassoio appoggiato sul tavolo basso meravigliosamente intarsiato, che mi sarebbe piaciuto far capitolare nella mia valigia. Ma l’avevo e se l’avessi avuta non ci sarebbe entrato.

Ci era stato vietato di scendere al ristorante per la colazione internazionale: alle sette del mattino c’era stato un attentato due hotel più avanti al nostro e invece di farci evacuare ci avevano relegato dentro le nostre stanze, con la speranza che, per colazione, qualcuno non avesse preferito una cintura aromatizzata al piombo piuttosto che le crêpes.

Ero a disagio, sapevo che avrei patito la fame. Nella fretta non avevo preso le mie brioches.

Fretta. Da quella telefonata, fretta.

Mi versai un caffè e accesi una sigaretta cercando di dare un ordine preciso alle idee senza inquinarle con la resistenza.

Alessandro ancora umido e profumato si prese il mio caffè e pure un bacio. Umido, delicato, soddisfatto. Poi mi disse, vestiti dobbiamo essere pronti entro mezz’ora e aspettare indicazioni.

Io riflettevo sul bacio. Certe volte fanno passare la fame. Poi guardai Alessandro. Che schifo, mi dicevo, che schifo.

Avrei voluto svelare al mondo perché si lavava tanto: puzzolente come il diavolo della Tasmania.

Fu allora che intercettai una bellissima bacchetta magica farcita di pietre, le sussurrai, sei stata tu, guardando la seta.

Pensavo alla gara e mi veniva da piangere. Tutto il mio lavoro, la macchina, Guendalina con i suoi occhiali. Billi con le cuffie. Pensavo che non dovevo essere lì. Cioè qui. Sì avete capito.

Mi preparai e preparai due zaini del tour operator, con il logo terribilmente antiestetico, inserendo a forza quella bella tuta blu, che qui era inutile, ma anche la vestaglia. Dopotutto era stata una magia, non era di nessuno, non era furto.

Uscimmo. Qualcuno ci seguiva. Stressante.

Mi sembrava di essere nella pubblicità che interrompe il film appena si fa interessante. Oscena, fuori luogo. Lunga, estenuante. La scaletta era:

-Sembrare turisti.

-Sembrare turisti in viaggio di nozze e innamorati. Che schifo.

-Scrivere cartoline come turisti in viaggio di nozze e innamorati. Che schifo.

-Trovarci in piazza delle Nazioni Unite alle 12:00.

-Scambiare sproporzionato riscatto con un ostaggio pelato.

-Rientrare vivi a Catania.

Il tutto rasentava la follia. Ma i pazzi di divertono sempre, non lo dite voi, ho riso come una pazza? No? Io invece attaccai la Medina spoglia, la gente non si sentiva al sicuro ad andare per strada, così, alla fine ero carica di buste e regalini, e una sacca che non ricordavo di aver preso da nessuna parte. Alessandro diceva poi ti dico e con il dito sulla bocca faceva shhh e strizzava l’occhio anche se gli veniva male. Si era calato perfettamente nel personaggio della spia internazionale come i tizi alla rotonda vicino casa mia con la Punto verde acqua ammaccata e senza parafango, l’auricolare Bluetooth e gli occhiali neri su colletto alzato per andare a comprare il pane. Al telefono la moglie, nun ti scurdari ’a cutuletta pp’o picciriddu*.

Alle 12:00 ci sedemmo accanto a una coppia del luogo. Lei era un tizio travestita da lei e lui era un tizio. Il tizio e Alessandro si accordavano per salvare il nostro capo che era stato rapito per impedire alla nostra azienda di partecipare alla gara. Mafiosi.

Indicavano la sacca: avevo io i soldi per il riscatto, a tracolla. Dunque sapevano tutti che l’elemento chiave ero io, che equivaleva a essere imbottita di tritolo.

Il tizio era il ponte con i malviventi.

Io ero preoccupata.

Il tizio fece segno. Partimmo da lì velocemente a piedi con tutte le mie buste.

Camminavamo, correvamo, camminavamo.

Ci fu un posto preciso, in un dedalo di viuzze, in cui il riscatto passò da me a un braccio scuro a pelo riccio che si allungava fuori dal finestrino di un taxi con lo sterzo di pelliccia. Dell’ostaggio nemmeno l’ombra ma mi trovai tra le mani un biglietto scritto in inglese con una calligrafia tra il medico di guardia e il farmacista assuefatto, ci misi un poco per decriptare.

Alessandro accanto a me brandiva una pistola e indicava due autovetture.

Dopo qualche istante ci trovammo ognuno alla guida di due macchine identiche e stavamo macinando strada, in fila indiana. Il luogo indicato era a 25 chilometri fuori da Casablanca.

Chi mi aveva designato per questa cosa doveva essere veramente una volpe, io non supero mai i 53-54 km orari nemmeno se scappo dalla polizia. Bau settete e sarei morta.

Mi tremavano le gambe, mi girava la testa. Bau settete.

Giorgio, pensavo, Giorgio Davanti, quello che mi paga il mutuo. Tremavo. Un po’ sbandavo. Ma dovevo correre. Stringevo la bacchetta magica insieme al cambio.

Giorgio era uno che stimavo, aveva due figlie piccole, forse erano adottate perché erano belle e lui un vero cesso.

Dovevamo salvarlo. Depistati, quasi subito, la macchina di Alessandro fu mandata fuori strada da un SUV color argento da cui usciva il braccio di prima, quello della sacca, e mi faceva segno di seguirlo. Sola.

Dopo qualche curva, il SUV frenò di colpo, lo sportello si spalancò e qualcuno lanciò Giorgio stravolto, camicia strappata e pantaloni che una volta erano stati avana. Saltò in macchina, inversione, e ingaggiammo la corsa verso l’hotel che fu la più terribile della mia vita, nemmeno quando avevo le coliche renali al pronto soccorso avevo sofferto tanto, calcolando pure due ore di flebo e lettiga. Giorgio come stai? Silenzio.

Ricordo esattamente a che ora si spense il motore della mia macchina perché era finita la benzina, fu il momento preciso in cui pensai di essere morta e che quello era un giro di prova per l’inferno: le 12:57, molto distanti dalla meta.

Scendemmo dall’auto per salire su una moto da cross accostata per caso a una panchina. Bacchetta cara.

Giorgio si mise alla guida per una normale diffidenza sulle mie capacità di equilibrista. Io ero il passeggero che faceva corna con la mano destra per una normale diffidenza sulle sue capacità, punto.

Cambio di piano.

L’hotel era stato bruciato, Alessandro ricominciò a comunicare nelle mie cuffie, coniglio, se ne era andato, era in salvo su un motoscafo con cui dovevamo raggiungere una nave che si trovava in acque internazionali su cui c’era l’elicottero che ci avrebbe portato alla gara.

Mi sembrò molto la pubblicità dell’amaro Montepietro, in effetti una bottiglia a portata di mano non sarebbe stata male, tra una cosa e l’altra. La gara. A quest’ora era già finita. Le lacrime scavarono un solco nel mio fondotinta. L’elicottero ci portò poi in azienda così lentamente che se

fosse stata la pubblicità dell’amaro Montepietro avremmo fatto una figura di merda.

Arrivammo.

Franco aveva vinto.

La mia delusione si doveva poter risarcire. Dopo tutto il mio impegno, le prove della tuta. Si ringrazia per l’organizzazione il capo della squadra. Io Silvia. Niente. Silvia non c’era. Pure i cameramen erano andati via.

Ma c’era la macchina di Franco, potevo ancora portare a termine il sogno.

Il mio dubbio più grande e feroce era… c’era abbastanza diesel per arrivare a casa?

Tra me e la macchina di Franco si mise Alessandro. No, si mise proprio al posto di guida.

Il diesel divenne l’ultimo dei miei problemi.

Sapete che c’è?

Alessandro non lo avevo mai sentito parlare prima di Casablanca, sì, a ragion veduta.

Sarebbe stato meglio fosse stato muto.

A lui il capo regalò la macchina, a me dieci panettoni avanzati dal Natale. Però la tuta era mia, potevo correrci in cortile con i miei cani. Azzardando avrei potuto anche con i rollerblade… allora pur di avere la macchina mi presi pure lui. Tutti pensarono fosse normale, si diceva fosse stata una notte di fuoco a Casablanca. Che schifo. Ma la macchina… quei sedili crema.

Alessandro venne a stare a casa mia.

Alessandro parla. Parla. Parla quando si sblocca, quando entra in confidenza. Da allora parla, parla. Scusate, gracida…

Mi sono persa il contro-incantesimo, la bacchetta magica è depressa perché non si trova con il clima e si è ripresa la vestaglia.

Ho provato di tutto. Sì, ho trovato un incantesimo con i capelli di Giovanna, una qualsiasi.

Ho messo un annuncio: 25 euro per una ciocca di Giovanna.

Ho rifatto il calderone, niente.

Poco dopo Giovanna è venuta a stare da me. Sospetto di avere sbagliato del tutto.

Anche Giovanna parla, parla. Parla. Non si ferma mai.

Per zittire lei mi serve la coda di un rospo.

Fate voi.

Pag.2 *si sono fatti gli occhi grossi

Pag.3 *cassine: persiane costituite da listelli di legno in

      genere di colore verde bottiglia o   

      marrone scuro

Pag.4 *la gatta frettolosa fa i gattini ciechi

Pag.4 *Sali che è pronto, siediti a tavola, hai lavato le  

      mani?

Pag.4 *un’opera del diavolo

Pag.8 *micciera: merceria

     *Extreme Ways colonna sonora finale del film The  

      Bourne Identity

Pag.13 *non dimenticare la cotoletta per il bambino

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Ticchettacche

aLLe 19 e 19 era lì.

Lei era lì. Lì giusto il tempo di comprare un panino con la mortadella tagliata sottile sottile, un salto all’edicola, un libro in edizione economica e due riviste, un caffè da portare grazie, ed era lì. Lì l’odore del panino era una tentazione. Tentazione come fosse lei il serpente che voleva entrare nella cesta all’incontrario e senza musica, solo l’odore. Odore, che male faceva, sapeva pure lui che sarebbe arrivato, anche lui abbastanza trafelato. Trafelato e sfatto, un accenno di barba, la camicia del giorno prima; era uno che si passava la mano tra i capelli. Capelli con le punte scolorite, la barba un accenno di bianco, gli occhi sfumati di nero come se avesse l’ombretto, il panino doveva aspettare.

Aspettare, forse doveva prenderne due? Due, certo non poteva scartarlo lì davanti a lui e mangiare così. Così come la pecora mastica l’aiuola, senza regole, maleducata, ora. Ora, ora a che ora era? avrebbe dovuto mangiarlo ‘ora’. Ora il pensiero del panino diventava sottile dolore e l’attesa infinita. Infinita; chiuse la cerniera della borsa, per sentirlo meno.

Meno male, si disse, quando lo vide arrivare, sedersi accanto a lei sulla panchina, scartare un panino, aprire una rivista e sull’altra mettere un caffè. Caffè oramai freddo, bicchiere sporco, cartine macchiate e scontrino appallottolato. Gli diede il tempo di respirare, le mani libere, una boccata di fumo poi lo guardò dritto in faccia.

Ti stavo aspettando.

Anche io.

Bene.

Chi sei?

Uno

Ma uno troppo pieno di se. Ti ho sognato sai? Eri veloce e abile come un Leprecauno finchè non ti ho tolto il cappello. Te l’ho tolto e sei rimasto nudo. Di quella nudità imbarazzante: avevi il naso lungo e pure arrossato. Cominciamo dalla cosa più importante tu fai uso di sostanze?

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Circle in the sand

Un cerchio, (qui si invocano tutti gli Arcangeli eh) sia chiuso oggi e speriamo ardentemente per le prossime vite. Si chiude con il corriere che suona, il citofono non funziona, il cagnolino abbaia con la voce da papera, le scale di corsa, rischio reparto ortopedico, per non perdere il pacco. Bellissimo Giuda. È tornato a casa.

Ne ho letti di libri. Ne ho letto uno che parlava di un Uomo a mezze verità che non mangiava mai.

Ne ho letti inutilmente di giardinieri con piante morte che insegnavano a coltivare, di esperti di tappeti turchi, di strateghi amorosi che non si sapevano organizzare ma Giuda… Un capolavoro. Una iniziazione.

In Giuda di Oz, cito testualmente…Asch troverà la risposta nel concetto di tradimento (…) ancorato all idea che si trova nei Vangeli gnostici che il tradimento di Giuda-aver consegnato Gesù alle autorità e a Ponzio Pilato-non fu altro che l esecuzione di un ordine di Gesù stesso per portare a termine il suo disegno.

Giuda di Oz, È tornato a casa a chiudere un cerchio, a illuminare la libreria.

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in spira e spira

è che uno c’ha l’ansia o che non ha mai risolto con la roba subìta an passant.

IO PER ESEMPIO SONO perseguitata dallo spirito del mio piercing per il naso: Il PIERCING della Senna, il signor ragnetto.

Ebbene, mi aveva avvisato, per anni l’ho perso, un giorno sì e un giorno no, per ritrovarlo. Era lui, sia chiaro, che mi faceva questa gentilezza, si rendeva reperibile. Poi canticchiava di un certo brillantino, perso il primo e ricomprato e io muta, lui incalzava…lo sai che se ti metti con quello lì lo perdi come quell’altro, di pircing si parlava… E’ vero, con quello lì ne avevo già perso uno quasi vent’anni fa. Come fosse uno scotto da pagare e alla fine in bilancio un lenzuolo col buco di sigaretta. Un conto salato. Un libro rovinato col vino. E il mio primo importante brillantino. Perso. Insieme al tempo. Perso.

Questa volta no, gli ho detto. E invece sì, perso presto presto come fosse un presagio. Già strideva dentro di me il presagio, io canticchiavo per sovrappormi. Strideva eppure ingaggiavo la sfida….pure dopo ..finché il Piercing della Senna, sballottato a destra e sinistra per quasi due anni, voluto e non voluto, amato e screditato, ingannato ma poi non era vero che era stato ingannato, poi sì ma per metà, le famosissime mezzeverità, ha detto stop. S’è perso. Nei meandri di una suola da scarpa, tra le polveri, in un terriccio, o con l’acqua del secchio. Non cambia. S’è stancato perchè era pure vecchio.

Potrei tornare sulla Senna, la farei facile se non fosse che l’aereo non mi va. E comunque a casa mia ha un’anima ogni oggetto. E lui è lì, il ragnetto, nell’aria.

Non so nemmeno se vuol essere sostituito, un poco di pace l’ha avuta con un pesante ‘processo di reso’. Adesso pare sopito. Allora ci spero, che salti fuori da un momento all’altro, io glielo dico, guarda che l’ho scaricato… niente, non si trova. Si è incazzato. Io so cos’ha. Voleva che sganciassi alla decima pietanza e invece ce sono state dopo un’infinità. Per amore, eh. Ma il ragnetto, che quello che aveva da dire lo aveva detto, s’incagnato. Ma per favore, ma che gli fai pure da mangiare… si mummuriava giusto giusto. C’aveva ragione lui, beninteso, ma certe cose se non le vivi non le saprai mai.

C’era. C’era il ragnetto che l’aveva detto. C’era la mattina che era foriera di un lutto, c’era ad asciugar lacrime a sentir litanie, a veder fantasmi, a riassettar cassetti, a rammendare maglie, a stirare camice, a cucire gli ultimi bottoni, a riesumare ricette per mangiare cibi buoni, a lasciare sugo e pane e biscottini pure per domani, a riempire ciotole di gatti. C’era nella posa militare di un sonno che sganciava sinistri, nel scivolare in bagno per non far rumore, nel comprare camice e mutande per fare l’amore, pantofole per non farlo raffreddare, c’era a contrattare spizzichi di prosciutto che se continui così ci resti morto, c’era a spezzettar due pesche per non farlo morire. C’era quando il giorno prima a cuocersi al sole. il giorno dopo a contare buchi nel muro di una sala d’attesa rigata dai quadri delle misure per la prevenzione, c’era a comprar pigiami . Ora qui ora là. Il ragnetto era rassegnato a non ricevere un caxxo. Ci veniva trascinato. Già lui se l’era immaginato. Lo sapeva dal primo mattino a resuscitar gerani, lui. Non gliel’ho mai chiesto ma se era ragnetto era pure maschietto?

C’era nei nei non siamo nulla ma non uscire da quella porta.

C’era quando pianopiano questa cosa s’è rotta.

Non si spiegava perchè nonostante una misera ripetizione di nulla, fossimo sempre lì, il libro, una birra, un carrellino e una sigaretta.

Non c’è un altro posto? si mummuriava

Io lo so perchè s’è incazzato. La disfunzione cognitiva. Il gatto di Schrödinger, il fatto.

Come lo vedi tu? rispondeva più di qua che di là, poi lui veniva a cercare l’ultima possibilità per non morire, un cane, qualche bottiglia, parlava d’amore e si pisciava sulle scarpe, due baci lunghi e riappariva il camaleonte. Il ragnetto, mano sulla fronte, minchia…di nuovo viaggi all’orizzonte.

La disfunzione congnitiva….

Lei. Si ma pure altre tre LEI e di certo QUattro e la quinta solo di concetto.

Stavamo così bene. IO E il ragnetto. Prima, con una sola disfunzione…e questa cosa che credeva così agognata come fosse nave da crociera e non piccolo pirata. Era solo speranza che in quell’UNO potesse guarire. Il ragnetto si mummuriava, non c’è niente da fare.

Fatto.

ADESSo respira.

Respira bene, gratis o a pagamento.

inspira pace espira guerra

(ce la fai? O c’è ancora qualcosa che si contorce nello stomaco e non sono solo i gamberetti?)

inspira amore espira rancore

(ce la fai? O la distorsione cognitiva si infrange a livello sacrale e genera perenni atomi di rancore che solo infierire con tagli e sale e poi una passata di pecorelle potrebbe metterti a riposo?)

inspira bene espira malefici

(comincia a farsi difficile…difficile resistere alla tentazione di rispedire al mittente, ma noi si respira, amorevoli e attente)

inspira commiserazione espira ammirazione

(questa è facile…non c’è nulla ma proprio nulla di valore)

inspira pienezza espira disarmonia, discromia, distorsioni

(intanto è buono che tu li veda netti), sembrerebbe inutile, come ballare per far scendere la pioggia.

allora respira,

inspira bianco espira nero

prova a mettere una carta sotto al cuscino

Mangia sano

Medita al mattino

Dormi sempre come un bambino…

poi arriva lui, l’uomo delle stelle che ci puoi andare sulla SEnna a cercar ragnetti.

Inspira viaggi espira relitti

inspira coerenza espira misfatti.

finiti?

inspira aria espira quello che vuoi

Fai. Non resta che chiedere scusa al ragnetto, ti vengo a prendere, te lo prometto.

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Dieci meno due

Ha un cappello da clown
Il ghigno
e
Il bisogno
-Amore mio- perché questo è un sogno
-Amore mio- perché  questo è un segno
La mia gamba era di legno
Adesso non piu
Ha un cappello da clown
Una linea incisa diritta
Nel destino la sconfitta
Il ghigno
Il bisogno
Era segno
Segno che era sogno
Non c è più Dio
Non c’è disegno
Non era sogno
Era ligneo
Una croce o più
La linea dritta della sconfitta
Di quando si sfida
si affronta il mulino spinto da vento
E queste parole restano nere e blu
Ma non ha più complice nessun convento
Il suo Dio non lo aiuta più
Si paga ora o in un altra vita
Che paghi guardandosi a testa in giù
Le mani
Le dita
Dieci meno due
Due di meno
Cerca le dita nel cuore
Non le trova più

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Andremo ‘a fantasmi’ piuttosto che a ‘misticanza’.

Sto studiando. E questo studio mi confonde. Siamo mai veramente pronti per le cose che vorremmo?

Quanto karma da riscrivere in questo giro affinché il prossimo non ne sia conseguenza? Quanto perdono che non siamo disposti a sostituire.

L’odio è confortevole. Affascinante. Estrae una parte di noi che altrimenti starebbe sepolta in fondo. La veste elegante, giusto un fresco di lana, una scarpa costosa e lucida, nostrana. Ho sento dire che c’è qualcuno che non l ha conosciuta mai. La parte di noi.

È rauco l’odio

Si innesca come una pennicillina

E inizia il suo viaggio in giri per la carne

Arriva al punto

Colora la voce, la innerva

L’odio

Blasonato

Giustificato

Fa I suoi giri per la carne

L’ avvelena

Avvelena le pupille

È motivato, c’ha ragione l’odio, più del perdono, più dell’orologio, più del caffè

Riveste il cuore

Vi cuce attorno cappotti per l inverno

Ago e filo ago e filo ago e filo tutto intorno

La mano danza e quando si ferma

È fatta

Resta solo di andare ‘a fantasmi’

Dove c è l’odio non cresce verdura

È fatta

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è iniziata con un paio di scarpe

finirà in mutande

un paio di scarpe possono cambiare la vita di un essere umano. Basta che non siano buone e non abbiano criterio.

Secondo le mappe di digitopressione e riflessologia plantare devo avere scafazzato il punto dello stomaco. Stomaco reattivo diventa cattivo. C’ho messo un pò, dovevo digerire certe cose pesanti ma non l’ho ancora fatto:

Un lutto che non mi ‘cala’, non l’ ho masticato, mi ha preso a morsi e l’ho inghiottito, intero. Si sono danneggiate le orecchie a sentire quel suono, il suono di un pianto che avrei voluto mio e mai e poi mai ‘suo’. Sono punti che mi fanno male, ora me ne rendo conto. Certo, li ho cercati sulla mappa. Sono loro. Ma anche quelli di un fegato strizzato, di occhi che non volevano vedere e di una colonna vertebrale sfiancata e, manca il tasto della fiducia tradita da un paio di connazionali ma sono sicura che è un’insalata. Di punti. Cercare veleno alla voce ameno.

Insomma, prendo questi benedetti sabot a primavera. Arrivano rivestiti di pelliccia, hai visto mai? con 30 gradi all’ombra… un pò carucci, un pò più alti , un pò sornioni. 30 gradi all’ombra… il piede si rosola e s’incazza, cerca da solo la soluzione per soccombere di meno. Sto spulciando la mappa, mi pare che il cuore sia in un posto solo. Mi verrebbe da ridere se ce ne fosse. Per si e per no le scarpe le ho riposte.

Un fisico intossicato, sogni bisogni e colazioni a tre fino a quando una ‘malattia’ mi inchioda di notte per le scale sotto la pioggia a fare le borse calde al mio amore grosso, plaid e coppola e massaggi alle gambe, eravamo due femmine, una spettatrice pronta al declino, una manipolatrice scacciamosche e schiva destino e 56 chili stiracchiati e tictacchettaggianti. Insomma quel giorno lì le ore se lo volevano rubare, tanto hanno fatto che. Tac.

Se ne va dal cortile al giardino il un fiero pastore di bedduviddi. Uno che la sera gli dovevi fare le pernacchie nella panza stirato lungo sul divano che non mi ci sono potuta io stirare mai, al limite faceva spazio a lei, la vedova.

La cosa che non mi cala la devo scrivere perchè altrimenti non la digerisco, santa pazienza.

Stava lì tutti i giorni sul muro al rientro, fiero e alto, entravi e non ti cacava di striscio ma passando da lì una zampa ti inchiodava la spalla e gli dovevi dare un bacio. Ecco. Altrimenti non si passa. bAcio sulla zampa, poi al panciuzzo e poi forse te lo dava lui rischiando ti staccasse la testa perchè nel frattempo doveva fare Batman e saltare giù. WOLF.

iNSOMMA….un giorno lì, il primo… in giardino una cacca color rame… dopo nessuna cacca. La merda serve, credetemi, è fondamentale. Nessuno mai è morto dopo essere stato mandato a cacare, in REAltà gli stai augurando del bene.

Nulla di più vero.

Al quinto giorno, quello dell’apocalisse, dopo una notte insonne per le scale e il respiro del suo petto che faceva clac SI CORRE.

sI CORRe per una ecografia all’addome impossibile da prenotare. SI fa. L’addome è pieno di liquido, il cuore c’ha una sacca e pure lì, forse, si, forse che ha fatto, chi era il veleno, si sarà calato uno stecco. è caduto mai? Ora che gli facciamo…. va be. Lesioni al fegato e lesioni al cuore. Il medico ti guarda poco convincente nelle sue asserzioni e nella sua ricerca di conferme… ma piddaveru? Questo toro, questo leone? Sta qui perchè non gli riesce di cacare… Gli aspira maldestra un pò di liquido dal petto… prenota una radiografia. Corriamo per la radiografia e io e lui e la vedova presunta fermi su una banchina che non c’eravamo stati mai. Ingestibile e funesto stava lì fermo a fare il suo dovere di paziente.

La radiografia privata, si sentivano da fuori le manovre di un cristianazzo sballottato, io e la vedova ad aspettare… conferma. Conferma tutto. Come un pentito.

A casa per una doccia e di corsa per un prelievo di sangue alle 16.

Allo studio per salvargli la vita alle 21 e 30.

Il tempo qui si allenta… pare sia il tratto che non digerisco. Ve lo risparmio casomai si appiccia. Mi muore tra le braccia. Mi muore il mio amore, una parte di me, moriamo io, lui, un fratello e una mezza vedova. Si spengono 10 anni. Si invecchia tutti dentro l’abitacolo a cercare la macchina del tempo e riavvolgere quelle ore, fermarci a casa chessò, a fare un clistere. L’avevamo portato perchè non poteva cacare.

C’abbiamo ancora la bocca aperta e gli occhi spalancati. Una giornata di guerra. Bombardamenti, detriti. E il silenzio dopo la corsa. Il silenzio e un buco nell’aria che occupava e molestava, così come il postino eh, così come l’eco di queste colline. Riempiva. C’era. E poi non c’era più.

Non digerisco la violenza di quella giornata.

Non ho parlato per giorni.

C’ho ancora le mosche che non vogliono uscire dalla bocca forse perchè non sono riuscita a guarire nessuno e quello era ‘Il miglio verde’ e lui il gigante buono e io una zia turnista di Bedduviddi. Ma la bocca è aperta. Per il suo pianto. Per il suo dolore. Amore.

Poi siccome questo tedesco, a parte sensitivo, a parte rompicoglioni, a parte funesto era pure accuditivo…due giorni dopo mi manda un coso nero. Precisione di un corriere di Amazon, quella nel raggio di tre metri. Intenzione 100. Si mette davanti al cancello e aspetta che apra e poi via. E’ casa sua.

Connor muore il 6 di maggio.

Il coso nero si presenta raccomandato al cancello l’8. E’ 5 chili e uno sputacchio. Drogato di sicuro perché non si ferma un attimo. Otto, sei venuto l’8 ti chiami Otto. Otto della zia…ti ha mandato Connor? Si ferma a guardarmi serio e piccolino. Gli occhi neri su muso nero. Grazie. Gli devi dire grazie. E che se non fai il bravo ti chiudo fuori dal 33 e ti stacco il pisellino. Otto-neronero si leva la vita a riempire quel buco, cresce di corsa e sta ancora di qua dalla porta. Connor è nell’aria. Ogni tanto si vede l’ombra delle orecchie dal giardino. Io nel frattempo vivo in mutande . Ma a me non è ancora uscito un moscerino.

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breve

storia

inventata

e

triste

c’era una volta un cane da salvataggio festoso come un cucciolo

se ne stava per conto suo, non si mischiava con nessuno, specie con i lupi, c’aveva i fatti suoi e un amORE A senso unico grande. Andava bene così. C’ERA sempre il sole.

Chi crede al lupo è destinato ad essere dilaniato.

Che lupo sei?

Non sono più il lupo.

Dilaniato. Creduto. Dilaniato. Rimasterizzato. Dilaniato. Sperato. Dilaniato. SbuGIARDAto. Dilaniato. Tradito. Rinnegato. Dilaniato. Sfidato. Dilaniato. Ferito. Fasciato.

Fu.

Eppur non doveva aver fame, era stato cibato.

Per vedere il sole devono cascare ora le bende.

Fame.

Infame.

Fine.

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la bocca

c’era una bocca tutta rosa. Aspirava fumo da una sigaretta e la sua mano carezzava una forchetta.

c’era un profumo di brodo che veniva dalla cucina. Aromi, spezie si preannunciavano delizie. Il conforto, quello sì, quello di una cena delle sere fredde, una luce fioca vicino a un divano, qualcosa di caldo e il suo cuscino. Una tovaglia improvvisata, per il piatto si era fatta spazio tra le buste della spesa, un accendino, un telefono e

un posacenere sporco. L’odore era pastoso, sinistro, acidulo. Odore di intriso. Ma era odore di casa. Accanto al piatto una forchetta, un tovagliolo, una busta del pane. La bocca era perplessa. Non sapeva come iniziare, sapeva che non aveva senso proseguire. La forchetta faceva di tutto per farsi notare ma la bocca non

una forchetta, già inutile per il brodo, allarghi pure i denti… Diventi? Una meraviglia. Una meraviglia… Tutte provano a mettersela in bocca. A fare restare brodo. Ogni tanto a qualcuna, la forchetta, vorrebbe insegnare un trucco per sembrare cucchiaio ma poi, di fronte all evidenza, pure lei… Allora niente, preferisce passar di bocca in bocca. In fondo sì, è più divertente, giacere su tavoli, su divani, no, sul letto no, giacere in cucina, o in macchina dopo un pic nic. Bocche di bionde, di brune, con le rughe di tanti anni fa quando era placcata d’argento e si poteva spacciare per preziosa. Una glielo ha detto, ti rivesto di oro… Se mi sforzo io ci riesco.. Avvicino quei denti. Allora la forchetta felice per un pò aveva lasciato fare. Si mirava dorata. Si piaceva. Diventava utile. Entrava in quella bocca felice. Si mangiava di gusto. Si lasciava lavare e asciugare con cura e aveva un bel posto soffice dove andare a dormire. Il problema furono le cene allargate. A quel punto le commensali riguardarono con interesse la forchetta. Dorata. Sembrava ridesse. Ricominciarono a passardela tra le mani. Tanto era gratis. E se qualcuna rimaneva senza tastarla era la stessa forchetta a invitarla. Che fa non vuoi vedere come sono diventata? Ma la ferraglia con il caldo si dilata. L’ oro sbiadisce. Rimane un ricordo. I denti si riallargano. A furia di segare si scalfisce. Una forchetta deforme può far male. Credo vada buttata via, a malincuore ma restano le foto si, le foto di quando era splendente, anni fa. Il metallo poi si differenzia di sabato insieme alle bottiglie. Certo, dipende dalla zona.